Posts written by ROSELLA

view post Posted: 26/6/2020, 13:01     Il cervello riconosce il linguaggio delle emozioni nella musica - Le Scienze
Un meccanismo neurale comune che permette di percepire la musica come triste oppure allegra nello stesso modo in cui cogliamo le emozioni espresse dalla voce umana sotto forma di linguaggio verbale o di vocalizzazioni. Questo il risultato di una serie di ricerche di Milano-Bicocca, chiariscono le capacità del cervello di comprendere la musica in modo universale ed innato.

Il progetto è stato realizzato dal gruppo di ricerca del Dipartimento di Psicologia di Milano-Bicocca, coordinato dalla professoressa Alice Mado Proverbio: “ERP markers of valence coding in emotional speech processing” appena pubblicato su iScience (DOI 10.2139/ssrn.3480697) e “Shared neural mechanisms for processing emotions in music and vocalizations”( https://doi.org/10.1111/ejn.14650) pubblicato su European Journal of Neuroscience.

E’ stata registrata la risposta bioelettrica cerebrale spontanea (combinata con immagini anatomiche di risonanza del Montreal Neurological Institute) da 128 sensori metallici posti sul cuoio capelluto di 60 studenti universitari maschi e femmine, mente altri 32 studenti hanno valutato la componente emotiva degli stimoli stabilendone la valenza negativa oppure positiva, per un totale di 92 partecipanti al progetto, durato più di 2 anni.

Gli stimoli erano di carattere verbale, vocale o musicale. Si trattava di 200 enunciati verbali con valenza emotiva (per es.: “Tutti mi disprezzano…”, oppure “Assolutamente fantastico!”, oltre a 25 frasi neutre contenenti un nome, tutti pronunciati da speaker professionisti. Inoltre sono stati proposti ai partecipanti 64 file audio di vocalizzazioni spontanee di uomini e donne adulti e bambini (gridolini di gioia, grida di sorpresa, risate, pianti, grida di paura, lamenti di tristezza). Sia le voci che il linguaggio sono stati poi trasformati digitalmente in melodie eseguite al violino o alla viola/violoncello e presentati in cuffia.

E’ risultato che i partecipanti erano in grado di riconoscere le sfumature emotive distinguendole in negative e positive – per le vocalizzazioni tra i 150 e i 250 millisecondi dopo l’inizio dell’emissione, verso i 350 millisecondi per linguaggio verbale – e a partire dai 450 ms per la musica strumentale. A partire da tale istante il cervello esibiva risposte bioelettriche simili per i 3 tipi di segnale (voce, musica, linguaggio), nella comprensione del loro significato emotivo.

Dall’analisi dei generatori cerebrali è emerso che solo per la musica si attivavano: area paraippocampale destra, lobo limbico e corteccia cingolata destra; solo per le vocalizzazioni: corteccia temporale superiore sinistra BA39; solo per il linguaggio verbale la corteccia temporale superiore sinistra BA42/BA39. Le aree comuni che, a prescindere dalla tipologia di suoni, erano attive nel comprendere la loro natura emotiva erano: per gli stimoli negativi il giro temporale mediale dell’emisfero destro, e per quelli positivi la corteccia frontale inferiore (si veda la fig. 1 allegata). La notazione ottenuta trasformando i segnali acustici in note musicali ha mostrato come i suoni emotivamente negativi tendevano ad essere in tonalità minore o a contenere più dissonanze di quelli positivi.

«Questi dati mostrano - dice la professoressa Alice Mado Proverbio - come il cervello sia in grado di estrarre e comprendere le sfumature emotive dei suoni attraverso popolazioni neurali specializzate della corteccia fronto/temporale, e dedicate a comprendere il contenuto prosodico e affettivo delle vocalizzazioni e del linguaggio umano. Questo spiega la relativa universalità di certe reazioni innate alla musica, che prescindono dall’età e dalla cultura dell’ascoltatore».
view post Posted: 26/6/2020, 13:00     Il cervello estende la percezione del corpo agli strumenti che teniamo in mano - Le Scienze
A dirlo è lo studio Somatosensory cortex efficiently processes touch located beyond the body pubblicato su Current Biology (DOI https://doi.org/10.1016/j.cub.2019.10.043).
Sedici persone hanno stretto tra le mani un bastone che veniva sottoposto a impatti esterni, e tutti i partecipanti sono riusciti a localizzare l’impatto con una precisione quasi perfetta, come se il tocco avvenisse sul braccio. Contemporaneamente i ricercatori, usando l'elettroencefalografia (EEG), hanno scoperto che la posizione dell’impatto sullo strumento veniva decodificata attraverso la dinamica neurale della corteccia somatosensoriale primaria e dalle regioni parietali posteriori. Le stesse che si attivano quando il contatto avviene direttamente sul corpo.

Lo studio, condotto da un team di ricerca internazionale cui ha partecipato anche il Dipartimento di Psicologia di Milano-Bicocca, ha dimostrato che il nostro cervello applica la percezione tattile del corpo ad un oggetto, come un’estensione del corpo.
L’esperimento apre nuove strade per la realizzazione di protesi sempre più precise, in grado di adattarsi al corpo. È stato infatti dimostrato che a riconoscere l’esatta posizione degli impatti sul bastone riesce anche una persona priva di sensibilità propriocettiva ad un braccio, confermando così che gli impatti sullo strumento sono codificati solo attraverso la modalità tattile.

«Questi risultati – commenta Nadia Bolognini, docente di Psicobiologia e psicologia fisiologica di Milano-Bicocca e coautrice dello studio - suggeriscono che sarà possibile, in un futuro non troppo lontano, progettare neuro-protesi sempre meno invasive e performanti generando in esse segnali tattili che forniscono risposte ottimali nel contatto con gli oggetti. Ciò potrebbe essere realizzato sfruttando il meccanismo identificato nel nostro studio, che permetterà al paziente di localizzare stimoli tattili su una protesi in modo naturale e facilitado così l'uso della protesi come se fosse un vero e proprio organo sensoriale esteso».
view post Posted: 26/6/2020, 12:59     Ansia o paura? Le emozioni e le parole per esprimerle - Le Scienze
Rabbia, paura, gioia e tristezza sono tra le emozioni fondamentali, ritenute universali. Eppure sono concettualizzate in modo diverso nelle differenti culture, associandosi o sovrapponendosi. Lo afferma uno studio pubblicato su “Science” da un gruppo di psicologi dell’Università del North Carolina a Chapel Hill e del Max-Planck-Institut che ha affrontato il problema dal punto di vista del linguaggio, analizzando come le diverse lingue del mondo esprimono le emozioni.

Gli autori hanno considerato in particolare la co-lessificazione, cioè il fenomeno linguistico per cui una parola è usata con significati diversi. Secondo gli autori, la co-lessificazione riferita alle emozioni può rivelare quali di esse sono considerate simili e quali distinte, annullando o viceversa accentuando le diverse sfumature.

Sulla base di un’ampia banca dati chiamata CLICS, che comprende ben 2474 lingue del mondo, i ricercatori hanno scoperto che le reti di co-lessificazione in cui sono associate le parole possono variare notevolmente. Per esempio, alcune lingue considerano il dispiacere simile alla paura e all’ansia, mentre altre lo assimilano maggiormente al rimpianto. Rilevante anche il fatto che una stessa emozione possa avere una valenza positiva o negativa. Nelle lingue austronesiane, parlate in Oceania, la sorpresa si associa alla paura, mentre nelle lingue daiche, parlate in Indocina, si associa alla speranza.

Queste differenze rispettano in qualche modo la vicinanza geografica: i gruppi linguistici tra loro vicini tendono infatti a esprimere le emozioni in modo più simile di quanto non facciano con gruppi linguistici lontani. Secondo gli autori, questo riflette, come prevedibile, i contatti tra le diverse popolazioni, che hanno portato a condividere anche la concettualizzazione delle emozioni.

Tra le tante differenze, però, i ricercatori hanno riscontrato tratti universali. Tutte le lingue considerate fanno distinzione tra emozioni piacevoli e spiacevoli, e tra emozioni che suscitano livelli alti o bassi di attivazione.


“Questi tratti universali nella struttura semantica delle emozioni nelle diverse famiglie linguistiche indicano che si tratta di dimensioni psicofisiologiche comuni e condivise da tutti gli esseri umani”, ha commentato Kristen Lindquist, dell’Università del North Carolina, autrice senior dello studio.

La ricerca, come sottolinea Asifa Majid, dell’Università di York, in Regno Unito, in un articolo di commento pubblicato sullo stesso numero di “Science”, ha il grande pregio di aver considerato un gran numero di lingue del mondo, anche quelle di popolazioni molto piccole. Questo però è anche il suo limite, dato che le liste di vocaboli e i significati loro associati sono compilate dai linguisti usando una lingua franca come l’inglese. E in questa procedura si possono insinuare inconsapevolmente incomprensioni e slittamenti di significato che si ripercuotono sul risultato finale dell’analisi. (red)
view post Posted: 26/6/2020, 12:57     Le buone onde della natura - Le Scienze
Le buone onde della natura
di Alex Cosquer
Il contatto con il mondo naturale agisce sul corpo e sul cervello, migliorando il nostro stato fisico e psicologico
view post Posted: 26/6/2020, 12:56     Vivere con la sclerosi - Le Scienze
Vivere con la sclerosi
di Giulia Alice Fornaro
Di fronte alla malattia bisogna ridefinire la propria identità, individuando obiettivi che rendano la vita degna di essere vissuta
view post Posted: 26/6/2020, 12:55     Il misticismo e il problema mente-corpo - Le Scienze
Il misticismo può essere una risposta alle domande irrisolte sul rapporto tra mente e corpo? La questione, che include problemi come quelli della coscienza, del libero arbitrio e del senso della vita, è stata al centro di un seminario informale intitolato "Fisica, esperienza e metafisica”, che ha coinvolto fisici, filosofi, psicologi e studiosi di varie discipline umanistiche


Ho trascorso una settimana partecipando a un simposio sul problema mente-corpo, il più profondo di tutti i misteri. Porsi il problema del rapporto tra mente e corpo – che poi comprende quelli della coscienza, del libero arbitrio e del senso della vita – significa chiedersi che cosa siamo veramente. Siamo materia alla quale è semplicemente capitato di dare origine a una mente?
view post Posted: 26/6/2020, 12:50     Russia: L'Anatra Bianca - Fiabe e Leggende
C'era una volta uno zar grande e potente, che sposò una bellissima principessa. Non c'era al mondo una coppia più felice di loro, ma la loro luna di miele fu ben presto interrotta ed essi furono costretti a separarsi, poiché lo zar fu chiamato in una spedizione di guerra contro un paese nemico. La giovane sposa pianse a calde e amare lacrime, mentre egli cercava in vano di consolarla e prepararla al distacco dandole dei consigli per quando sarebbe rimasta sola; le raccomandò sopratutto di non allontanarsi mai dal castello, di non dare confidenze a estranei, di guardarsi sempre dai cattivi consiglieri e specialmente dalle donne strane. La giovane zarina promise di ubbidire scrupolosamente alle parole del suo signore e consorte. Così, quando lo zar se ne fu andato, ella si ritirò con le sue fedeli dame di corte nei suoi appartamenti, trascorrendo il suo tempo a tessere e filare, e naturalmente, pensando al suo caro sposo lontano.

La zarina era sempre triste e addolorata, e accadde un giorno, che, mentre stava seduta alla finestra, piangendo sul suo lavoro, si affacciò una vecchia con un bastone, dall'aspetto e dai modi gentili e rassicuranti, che le disse in tono amichevole e lusinghiero: «Perché ve ne state lì tutta sola e triste, mia splendida regina? Non dovreste starvene chiusa tutto il giorno nella vostra stanza a deprimervi, uscite, uscite fuori in giardino, che è tutto verde e rigoglioso; venite a sentire gli uccellini che cantano, e a osservare le belle farfalle volare tra i fiori, a udire il ronzio delle api e degli altri insetti. Lasciatevi trasportare dal calore dei raggi solari che sciolgono le gocce di rugiada dai petali di rose e dai gigli in fiore. L'aria aperta e il sole vi gioverebbero molto, e vi aiuterebbero a dimenticare le vostre pene, regina.» Per un bel pò la zarina resistette alle parole adulatorie della vecchia, ricordando la promessa che aveva fatto al marito, ma alla fine disse a se stessa che in fondo non c'era niente di male a passare le giornate in giardino, rilassandosi al caldo dei raggi del sole, e a godere di tutte le delizie della natura, che la vecchia le aveva così sapientemente descritto e cedette alla tentazione. Purtroppo ella non poteva sapere che la gentile vecchina dai modi così garbati e rassicuranti era in realtà una strega cattiva, invidiosa della sua buona fortuna, e desiderosa di vendicarsi e rovinarla. E così, siccome si fidava di lei e ignorava la verità, un giorno seguì la vecchia nel giardino reale e diede retta alle sue parole suadenti e adulatorie.

Lì, in mezzo al giardino c'era uno stagno, chiaro e limpido come il cristallo, e la vecchia strega disse alla zarina: «Splendida regina, oggi fa così caldo, il sole scotta talmente che un bel bagno rinfrescante in questo stagno sarebbe l'ideale: è così invitante..» «Preferirei di no» rispose la zarina, ma subito dopo pensò: "In fondo, che male c'è a fare un bagno in quest'acqua così chiara e fresca?" Così dicendosi, si svestì e s'avvicinò timidamente alla fonte; ma non aveva ancora immerso un piede nell'acqua, quando avvertì un grosso spintone alle spalle, e TUF! La stregaccia cattiva la buttò in acqua, esclamando malignamente: «E adesso nuota, anatra bianca!» Poi la perfida strega assunse le sembianze e gli abiti della zarina, prendendo il suo posto al palazzo reale, e aspettando il ritorno del sovrano suo marito. Poco tempo dopo i cani udirono il rumore degli zoccoli dei cavalli e abbaiarono per annunciare che lo zar era tornato. La strega, irriconoscibile nelle sembianze della zarina, corse incontro allo zar e gli buttò le braccia al collo e lo baciò. Lo zar era felicissimo di poter finalmente riabbracciare la sua adorata sposa, ma naturalmente non poteva immaginare che la donna che stava tra la sue braccia non era sua moglie, bensì una perfida strega.

Nel frattempo, fuori del palazzo, la povera Anatra Bianca era confinata nello stagno, presso il quale un giorno essa depositò tre uova, e quando si dischiusero, vennero fuori due soffici anitrelle e un brutto anatroccolo. Anatra Bianca allevò i suoi piccoli, i quali zampettavano nello stagno sempre dietro a lei, pescavano i pesciolini d'oro, e saltellavano sulla riva, starnazzando qua e la tutto il giorno e anatrando: «Qua! Qua!» mentre passeggiavano tutti impettiti. Ma la mamma raccomandava sempre di non allontanarsi troppo, perché nel castello viveva una strega cattiva, spiegò, che l'odiava e che le aveva fatto del male, e che quindi, avrebbe fatto male anche a loro. Gli anatroccoli però non ascoltavano abbastanza le raccomandazioni materne, e così un giorno, mentre si erano spinti a giocare nel giardino, presero a gironzolare proprio sotto le finestre del castello. La strega li riconobbe subito dall'odore e cominciò a digrignare i denti per la rabbia; allora cercò di celare i suoi sentimenti nel tentativo di avvicinarli e fece finta di essere gentile e simpatica; li attirò a sé chiamandoli con finta dolcezza, scherzò un pò con loro, e li condusse in una bella sala, dove diede loro da mangiare e un soffice cuscino dove dormire. Poi li lasciò lì e scese nelle cucine, dove disse ai servi di affilare i coltelli e accendere un bel fuoco molto caldo, e mettervi a bollire una grossa pentola d'acqua.

Intanto le due anatrelle si erano addormentate, con il fratellino accucciato in mezzo a loro, avvolti dalle loro piume per stare al calduccio, ma l'anatroccolo non riusciva a dormire, così quella notte udì la strega alla porta chiedere: «Anatroccoli, state dormendo?» E l'anatroccolo rispose al posto delle sorelle:

Dormire non possiamo
Tante lacrime spargiamo
Il calderone hanno infuocato
E il pugnale è già affilato
Come fare a non tremare
Quando stai per trapassare

«Mmm.. sono ancora svegli» borbottò la strega; andò su e giù per il corridoio per un po', e poi si piazzò di nuovo davanti alla porta e disse: «Piccolini, siete svegli?», e di nuovo il piccoletto rispose al posto delle sorelle:

Dormire non possiamo
Tante lacrime spargiamo
Il calderone hanno infuocato
E il pugnale è già affilato
Come fare a non tremare
Quando stai per trapassare

«Come mai risponde sempre la stessa voce?» si chiese la strega sospettosa, «Sarà meglio dare un'occhiata». Aprì delicatamente la porta, e vedendo i due che dormivano beatamente, s'avvicinò e li uccise. Il mattino dopo Anatra Bianca vagava preoccupata intorno allo stagno alla ricerca dei figli; li chiamò e li chiamò, li cercò ovunque ma non riuscì a trovarli. Allora ella d'istinto ebbe il presentimento che gli fosse capitato qualcosa di male, e che fosse stata la strega, così, si fiondò d'impeto fuori dell'acqua e si precipitò al castello, e lì, sul pavimento di marmo della corte, giacevano i corpi morti dei suoi tre figli. Anatra Bianca si riversò sui loro corpicini, e coprendoli con le sue ali, gridò disperata:

Qua qua, qua, gemme mie belle
Qua qua, qua mie preziose tortorelle
Con dolore e sofferenza vi ho allevato
Ma senza pietà vi hanno trucidato
Nel mio nido al sicuro vi ho tenuto
Fino a che qualcuno vi ha poi nuociuto
Vi ho vegliato i giorni e le notti
Voi tre, la luce dei miei occhi

Ora, accadde che proprio in quel momento, lo zar, che era lì vicino, udì il disperato lamento di Anatra Bianca, e chiamata la presunta moglie le disse: «Ma che strana meraviglia è questa? Senti, senti quella Anatra Bianca che lamenti che fà!». Ma la strega rispose: «Mio caro marito, a cosa ti riferisci? Non trovo niente di speciale nello schiamazzo di un'anatra. Servi, venite qui! Prendete quell'anatra, cacciatela via dal cortile.« Ma per quanta caccia i servi diedero all'anatra, non riuscirono a liberarsene, perché ella continuava a vagare su e giù come impazzita per tutta la corte; loro tentavano di mandarla via e lei puntualmente ritornava sul giaciglio dei suoi piccoli, e gridava:

Qua qua, qua figlioli miei belli
qua qua, qua miei tortorelli
la strega cattiva vi ha assassinato
quella scaltra serpe a me vi ha strappato
Per primo il mio re, la megera ha rubato
con l'inganno in anatra mi ha tramutato
togliendomi una vita di felicità
ma se la sorte da me tornerà
tremenda vendetta su di lei ricadrà

Quando il re ascoltò queste parole, cominciò a sospettare che qualcosa non tornasse, e che fosse stato ingannato; convocò i servi e ordinò: «Presto, prendete quell'anatra e portatemela qui subito.» Ma per quanto i servi corressero su e giù per la corte, non riuscivano ad acchiapparla, perché lei non si lasciava prendere. Allora intervenne anche lo zar, e come lo vide arrivare, l'anatra gli volò tra le braccia; e nel momento stesso in cui il suo corpo le colpì le ali, ella riacquistò la sua forma umana, ed egli riconobbe la sua cara sposa. Allora ella gli raccontò tutto quello che era successo in sua assenza, e gli disse di andare a cercare una certa bottiglia che stava nel nido in giardino, che conteneva delle gocce guaritive della primavera. Le portarono le gocce miracolose, con le quali lavarono i corpicini delle anatrelle e dell'anatroccolo, e all'improvviso dai corpi dei tre morticini, uscirono tre bellissimi bambini, svegli e pieni di vita. Lo zar e la zarina furono pazzi di gioia per aver ritrovato i loro tre bambini, e così poterono tornare a vivere felicemente insieme, al palazzo reale, per sempre. Però la cattiva strega non se la passò altrettanto bene, e sopra di lei passò la terribile scure della punizione.
view post Posted: 26/6/2020, 12:48     Amore di sale (Marche) - Fiabe e Leggende
C'era una volta un grande re. Questo re aveva tre figlie e quando rimase vedovo riversò tutto il suo amore su di loro. Passò del tempo e le tre ragazze, vedendo con quanto affetto e premura il padre le cresceva, le istruiva e le proteggeva dai dispiaceri e dalle cattiverie del mondo, fecero del loro meglio per fargli dimenticare il dolore che ancora provava per la scomparsa della moglie. Ma un giorno, inaspettatamente, il re chiamò la figlia maggiore e le domandò: "Come mi ami, tu, figlia mia?" "Padre mio, ecco, ti amo come il miele", rispose lei, dopo aver pensato un attimo a cosa ci poteva essere al mondo di più dolce. "Lunga vita a te, figlia mia; e che il Signore mi aiuti a godermi la tua presenza il più a lungo possibile." E poi chiese alla figlia secondogenita: "E tu come mi ami, figlia mia?" "Come lo zucchero, padre mio." "Ti auguro tutto il bene di questo mondo, figlia mia; e che il Signore mi conceda a lungo la gioia della tua compagnia."

Il re fu contento di sentirsi tanto amato dalle due figliole più grandi. Alla fine guardò anche verso la figlia più piccola, che stava timidamente un po' in disparte, e chiese anche a lei: "E tu, figlia mia, come mi ami?"; "Come il sale nelle pietanze, padre mio!" rispose lei, serenamente, sorridendogli con amore filiale e abbassando la testa e lo sguardo, imbarazzata di dover parlare. Quando le sorelle più grandi sentirono la sua risposta scoppiarono a ridere e voltarono lo sguardo altrove. E il padre, con le sopracciglia corrugate e molto arrabbiato, la ammonì: "Vieni un po' qua, sconsiderata, così ci capiremo meglio! Non hai forse sentito con quale amore filiale mi amano le tue sorelle? Come mai non hai pensato anche tu come loro di dirmi quale dolce amore provi per tuo padre? E' per questo forse che mi sforzo di allevarvi e di istruirvi in modo che nessun altro al mondo possa eguagliarvi? Vattene da questa casa: tu e il tuo sale!" Quando la povera piccola figlia del re sentì quanto fosse arrabbiato con lei il padre, avrebbe voluto sprofondare nella viscere della terra per aver dato tristezza al genitore, e prendendo il coraggio a due mani, rispose: "Perdonami, padre, io non ho voluto darti dispiacere. Ma ho pensato, con la mia mente, che anche se il mio amore non era pari di quello delle mie sorelle, non era comunque al di sotto dello zucchero e del miele.." "Ma guarda, guarda.." la interruppe il padre, "e osi anche paragonarti alle tue sorelle più grandi? Vai via, figlia impertinente, non voglio neanche più sentirti nominare!" Con queste parole, le chiuse la bocca e la lasciò annegare nelle lacrime. Le sorelle vollero consolarla con parole dolci, ma le fecero più male che bene. La figlia piccola, quando vide che neanche le sorelle avevano pietà di lei, confidò nell'aiuto del Signore e decise di andare là dove lui l'avrebbe guidata. Prese quindi dalla casa paterna solo alcuni vestiti vecchi e trasandati e girovagò da un paese all'altro, finché arrivò alla corte di un altro re.

Arrivata lì, si sedette davanti alla porta del castello. La moglie del cantiniere la vide, andò da lei e le chiese cosa volesse: lei rispose che era solo una povera ragazza orfana di tutti e due i genitori e che voleva andare sotto padrone, se solo avesse trovato un posto. Proprio in quei giorni era andata via la ragazza che aiutava la moglie del cantiniere, e lei ne cercava un'altra. La guardò quindi molto attentamente e la ritenne adatta a quel lavoro, e le chiese quanti soldi volesse; lei rispose che chiedeva solo vitto e alloggio, e così si accordarono facilmente. Fu presa quindi subito come aiuto. Le disse quel che doveva fare, e le diede un mazzo di chiavi scelte tra le tante che aveva. E siccome aveva mani d'oro per fare la pastella, le conserve, la confettura e le altre cose buone che si possono trovare solo nelle dispense del re, le affidarono la cura delle provviste e dei pranzi di corte. Non si fermava mai in chiacchiere vane con nessuno, ed era diligente e veloce. Fu così che tutti a palazzo cominciarono a rispettarla e a trattarla con gentilezza, e nessuno trovò mai motivo per rimproverarla.

Le voci sulla diligenza e sulla modestia della ragazza che aiutava la moglie del cantiniere arrivarono veloci anche all'orecchio della regina. E questa desiderò vederla e conoscerla. E quando si preparò per presentarsi davanti a lei, la ragazza seppe bene come vestirsi e rivolgersi a lei: a cuore aperto, senza inganni, ma senza osare troppo. Fu così che la regina cominciò a volerle bene, e sospettò che la ragazza non potesse essere di modeste origini. E così, dove andava la regina, andava anche la ragazza; quando la regina si metteva a ricamare anche lei si metteva a lavorare l'ago. La ragazza divenne l'ombra della sovrana, e che questa l'amava come se fosse sua figlia. Anche il re si meravigliava del grande affetto che la moglie portava a questa ragazza. Questo re aveva solo un figlio maschio. Lui e la regina lo guardavano come un sole e gli volevano bene oltre misura. Un giorno il re dovette partire in guerra, e prese con sé il figlio per abituarlo anche alla lotta, ma lo riportarono a casa ferito. La madre piangeva lacrime amare e si lamentava per il grande dolore. Passava le sue notti vegliandolo, e si affaticò tanto da non potere stare neanche più in piedi. Allora chiamò la ragazza, come persona di fiducia, perché si prendesse cura di lui. Le parole della ragazza, le sue carezze, la sua modestia e saggezza risvegliarono nel cuore del malato un sentimento che mai prima di allora aveva provato. Il figlio del re cominciò ad amarla perché gli sembrava, quando le sua mani gli toccavano le ferite, che il dolore si attenuasse.

Un pomeriggio, quando ormai stava meglio, parlando con la madre, disse: "Sai, mamma, vorrei prendere moglie." "Va bene, caro, va bene. Ti cercherò una brava ragazza, figlia di re, buona, di alto rango e brava in casa." "L'ho già trovata, mamma!" "E chi è? La conosco?" "Non ti arrabbiare, mamma, quando te lo dirò. È; la tua cameriera che mi ha rubato il cuore. Le voglio bene più che a me stesso. Fra tutte le figlie di re che ho visto, neanche una mi è piaciuta come lei. Mi ha stregato il cuore." Dopo qualche incertezza, il re e la regina acconsentirono alle nozze e si prepararono per il fidanzamento del figlio con la cameriera e fissarono la data delle nozze. La fidanzata del principe supplicò i sovrani affinché invitassero un certo re di sua conoscenza, che altri non era che suo padre; ma si guardò bene dal rivelare a qualcuno che era la figlia di quel re.

Il giorno della benedizione nuziale arrivarono tutti gli invitati. La sera venne imbandito un pranzo grandioso, con portate di ogni genere, con mille bevande, con focacce e torte e tante altre cose buone, da leccarsi le dita quando le mangiavi. La sposa stessa aveva detto ai cuochi cosa dovevano cucinare. Ma fu proprio lei, con le sue stesse mani, a cucinare parte delle pietanze per un solo ospite. Poi ordinò ad una servetta di sua fiducia di portare in tavole le pietanze da lei cucinate a quel re che era stato commensale, pena la morte. La servetta fece proprio come le era stato ordinato. Dopo che tutti gli invitati si furono messi a sedere attorno a quel tavolo, cominciarono a mangiare e a divertirsi a più non posso. Il re invitato, cioè il padre della sposa, non riusciva a mangiare. Già da quando era arrivato non riusciva a staccare gli occhi dalla sposa, e sembrava che il cuore volesse dirgli qualcosa, ma non voleva credere ai suoi occhi. Il cibo non gli andava giù. Si meravigliava del perché tutti gli altri commensali mangiassero con tanto appetito delle pietanze che per lui non avevano gusto. Chiese al vicino che sedeva alla sua destra come gli sembrava il pranzo, e questi gli rispose che mai aveva mangiato delle pietanze così gustose. Il re assaggiò dal piatto del vicino e si rese conto che effettivamente era molto buono. Lo stesso fece con il vicino di sinistra, e dopo questi due assaggi gli venne l'aquolina in bocca. Finalmente, non potendo più trattenersi, si alzò in piedi e gridò: "Dimmi bene, re, mi hai invitato alle nozze di tuo figlio per prendermi in giro?" "Guai a me, Maestà! Come puoi pensare una cosa simile? Come tutti possono vedere, onoro te come tutti gli altri re e senza fare differenza." "Invece no, Maestà! Perdonami, ma le pietanze di tutti gli altri commensali sono buone da mangiare, ma le mie no!" Il re suocero si arrabbiò moltissimo e ordinò che tutti i cuochi si presentassero dinanzi a lui per rendere conto di quello che avevano combinato, e i colpevoli sarebbero stati puniti con la morte. E sapete cos'era successo? La sposina aveva cucinato tutte le pietanze per il re, suo padre, senza sale, ma solo con miele e zucchero. Persino la saliera che si trovava davanti a lui, sul tavolo, era piena di zucchero e non serviva a niente che il povero re prendesse con il coltello d'argento quello che pensava fosse sale e lo mettesse sulle pietanze: queste, invece di diventare buone da mangiare, diventavano ancora più dolci. Allora la sposa si alzò e disse al re, suo suocero: "Sono stata io a cucinare le pietanze per il re che si è arrabbiato ed ecco perché l'ho fatto: questo re è mio padre. A casa eravamo tre sorelle e un giorno nostro padre ci chiese come lo amavamo. Le mie sorelle più grandi risposero che lo amavano come il miele e come lo zucchero. Quando venne il mio turno, io risposi che lo amavo come il sale nelle pietanze. Così infatti avevo pensato: che non esisteva amore più grande e più vero di questo. Mio padre invece si arrabbiò e mi cacciò di casa. Il Signore ha voluto lasciarmi la vita, e con il lavoro, l'onestà e la diligenza sono arrivata dove adesso mi vedete. In questa occasione ho voluto provare a mio padre che senza miele e senza zucchero un uomo può benissimo sopravvivere, anche se a lungo andare il dolce dà la nausea, mentre senza sale nelle pietanze, non si può stare. Ecco perché gli ho preparato tutti i cibi senza sale."

Allora il padre della sposa riconobbe di non aver saputo capire l'arguzia della figlia e le chiese perdono. La ragazza gli baciò la mano e gli chiese a sua volta perdono per averlo inquietato con il suo modo di fare. Finalmente tutti ripresero a mangiare e cominciarono a divertirsi così tanto che questo pranzo di nozze divenne famoso in tutto il mondo. E vissero tutti felici e contenti.
view post Posted: 26/6/2020, 12:48     J.De La Fontaine: L'Amore e la Follia - Fiabe e Leggende
Amor è un gran mistero:
mistero i dardi, la faretra, il foco,
e dell'infanzia sua mal noto è il vero.
Non io pretendo adesso
in pochi versi movergli il processo
e spiegar questa scienza, che, confesso,
vuol tempo per chi sa ben decifrarla.
Ma voglio colla solita mia ciarla
narrar soltanto come il cieco iddio
perdesse gli occhi e il mal che ne seguì,
un mal, che a parer mio
potrebbe essere un ben... Ma in questo affare
agli amanti rimetto il giudicare.

Amor giuocava un giorno in compagnia
della Follia.
Aveva il fanciullino in quell'età
aperti gli occhi ch'ora più non ha.
Nata una fiera disputa,
voleva Amor portarla innanzi ai Numi,
ma la Follia, perduta la pazienza,
gli die tal colpo che gli spense i lumi.

Venere, donna e madre, a quella vista
alza le strida e stordisce gli Dèi.
Giove dal cielo e Nemesi
e tutti insieme accorrono con lei
i giudici d'inferno.
La madre piange e narra della trista
l'orrenda azione,
e come il suo bambin non possa, ahi! moversi
senza bastone.

Non c'è pena sì grande,
che corrisponda ad opre sì nefande;
ma poi che riparata esser dovea
l'ingiuria, visto il caso, il danno, il male,
e visto l'interesse generale,
la corte mise fuori questa grida:
- Sempre Follia faccia all'Amor di guida!
view post Posted: 26/6/2020, 12:45     Grimm: L'allodola che canta e saltella - Fiabe e Leggende
C'era una volta un uomo che si preparava a partire per un lungo viaggio e, nel prender commiato dalle sue tre figlie, chiese loro che cosa avrebbero voluto ricevere in dono. La prima voleva delle perle, la seconda diamanti, mentre la terza disse: "Caro babbo, desidero un'allodola che canta e saltella". Il padre disse: "Sì, se riesco a prenderla l'avrai". Le baciò tutt'e tre e partì.

Quando fu tempo di ritornare a casa, aveva comprato perle e diamanti per le due maggiori, per la minore invece non era riuscito a trovare l'allodola che canta e saltella, benché‚ l'avesse cercata ovunque; e ciò gli dispiaceva perché‚ la figlia più piccola era la sua prediletta. La strada lo condusse attraverso un bosco in mezzo al quale si trovava uno splendido castello e, vicino al castello, un albero, sulla cima del quale egli vide un'allodola che cantava e saltellava.

"Ehi, capiti proprio a proposito!" disse tutto contento, e gridò al servo di arrampicarsi sull'albero e di catturare l'uccellino. Ma come questi si avvicinò all'albero, saltò fuori un leone che scosse la criniera e ruggì da far tremare le foglie degli alberi. "Se qualcuno vuole rubarmi l'allodola che canta e saltella, io lo divoro!" Allora l'uomo disse: "Non sapevo che l'uccello ti appartenesse. Posso riscattarmi in qualche maniera?". "No" rispose il leone "non vi è nulla che possa salvarti se non prometti di accordarmi la prima cosa che ti verrà incontro facendo ritorno a casa; se prometti ti risparmio la vita e ti regalo pure l'uccello per tua figlia." Ma l'uomo rifiutò e disse: "Potrebbe trattarsi della mia figlia minore: mi vuole bene più di ogni altro e mi corre sempre incontro quando ritorno a casa". Il servo ebbe paura e disse: "Ma potrebbe anche trattarsi di un gatto o di un cane!" L'uomo si lasciò persuadere e, con il cuore grosso, prese l'allodola che canta e saltella, facendo al leone la promessa di accordargli ciò che, a casa, gli fosse venuto incontro per primo.

Quando arrivò a casa, la prima ad andargli incontro fu proprio la sua amata figlia minore; venne di corsa, lo baciò e lo abbracciò e quando vide che aveva portato un'allodola che canta e saltella fu ancora più felice. Ma il padre non poteva rallegrarsi; si mise a piangere e disse: "Ah, mia diletta bambina, ho pagato caro quest'uccellino! In cambio ho dovuto prometterti a un feroce leone, e quando ti avrà in suo potere ti sbranerà e ti divorerà". Le raccontò come erano andate le cose e la supplicò di non andarci, qualunque cosa accadesse. Ma ella lo consolò e disse: "Carissimo babbo, dovete mantenere ciò che avete promesso: andrò dal leone, lo placherò e farò ritorno da voi sana e salva".

Il mattino seguente si fece indicare il cammino, prese congedo e si addentrò fiduciosa nel bosco. Ma il leone era un principe stregato: di giorno era un leone, e con lui diventavano leoni tutti i suoi cortigiani, ma di notte riprendevano il loro aspetto umano. Al suo arrivo, ella fu accolta gentilmente e fu celebrato il suo matrimonio con la bestia. Quando venne la notte, il leone divenne un bell'uomo ed essi vissero insieme felici per un lungo periodo, vegliando la notte e dormendo durante il giorno.

Un giorno egli andò a dirle: "Domani c'è una festa in casa di tuo padre, perché‚ si sposa la tua sorella maggiore. Se desideri andarci i miei leoni ti accompagneranno". Ella rispose di sì poiché‚ desiderava rivedere il padre; e andò scortata dai leoni. Al suo arrivo la gioia fu grande, poiché‚ tutti avevano creduto che fosse morta da un pezzo, sbranata dal leone. Ella invece raccontò che stava molto bene, e rimase insieme a loro per tutto il tempo delle nozze, poi fece ritorno nel bosco.

Quando si sposò anche la seconda figlia, e l'invitarono nuovamente a nozze, ella disse al leone: "Questa volta non voglio andare sola, devi venire anche tu!". Ma il leone non voleva e disse che era troppo pericoloso per lui, perché‚ se fosse stato sfiorato dalla luce di una candela si sarebbe trasformato in una colomba e avrebbe dovuto volare con le colombe per sette anni. Ma ella non gli diede pace dicendo che lo avrebbe protetto e preservato da ogni luce. Così partirono insieme, portando anche il loro piccino. Ella fece costruire una stanza dai muri così spessi e massicci che nessuna luce poteva penetrarvi; là doveva stare il principe quando avrebbero acceso le fiaccole nuziali. Ma la porta era fatta di legno giovane; si spaccò producendo una piccola fessura che tuttavia nessuno notò. Le nozze furono celebrate con gran pompa, ma quando il corteo fece ritorno dalla chiesa e passò davanti alla stanza con tutte le fiaccole e le candele, un tenue raggio di luce cadde sul principe e, non appena l'ebbe sfiorato, egli si trasformò. Quand'ella venne a cercarlo non trovò più il principe, ma una bianca colomba che le disse: "Per sette anni devo volare per il mondo: ma ogni sette passi lascerò cadere una rossa goccia di sangue e una piuma bianca: ti indicheranno il cammino, e se mi segui puoi liberarmi".

Poi la colomba volò fuori dalla porta ed ella la seguì; ogni sette passi cadevano una rossa gocciolina di sangue e una piuma bianca, a indicarle il cammino. Ed ella vagò in giro per il vasto mondo, senza guardarsi attorno e senza riposarsi mai, e i sette anni erano quasi trascorsi: allora ella se ne rallegrò, pensando che la liberazione fosse vicina; e invece era ancora così lontana!

Una volta, mentre camminava, le piume e le goccioline di sangue cessarono di cadere, e quand'ella alzò gli occhi, la colomba era sparita. E poiché‚ pensò che nessun essere umano avrebbe potuto aiutarla, salì fino al sole e gli disse: "Tu che splendi nei crepacci e sulle cime, non hai visto volare una colomba bianca?". "No" rispose il sole "non l'ho vista. Ma voglio regalarti una scatolina: aprila quando ti troverai in difficoltà." Ella ringraziò il sole e proseguì il suo cammino finché‚ si fece sera e apparve la luna; allora ella chiese: "Tu splendi tutta la notte per campi e per boschi; non hai visto volare una colomba bianca?". "No" rispose la luna "non l'ho vista. Ma voglio regalarti un uovo: rompilo quando ti troverai in difficoltà." Ella ringraziò la luna e proseguì il suo cammino finché‚ soffiò il vento di tramontana; allora ella gli disse: "Tu soffi fra gli alberi e sotto le foglie, non hai visto volare una colomba bianca?". "No" rispose il vento di tramontana "non l'ho vista, ma chiederò agli altri tre venti, forse loro l'hanno vista." Vennero il vento di levante e il vento di ponente, ma dissero che non avevano visto nulla; invece il vento di mezzogiorno così parlò: "Ho visto io la colomba bianca: è volata fino al mar Rosso dov'è ridiventata un leone, essendo trascorsi i sette anni. Il leone sta combattendo con un drago, ma il drago è una principessa stregata". Allora il vento di tramontana le disse: "Voglio darti un consiglio: va' fino al mar Rosso, sulla riva destra ci sono delle grosse canne, contale, taglia l'undicesima e con quella colpisci il drago; allora il leone potrà vincerlo e tutti e due riacquisteranno la loro figura umana. Poi guardati attorno e vedrai un grifone in riva al mar Rosso; saltagli sul dorso con il tuo sposo: l'uccello vi porterà a casa sorvolando il mare. Eccoti anche una noce: quando sei in mezzo al mare, lasciala cadere; subito germoglierà e dall'acqua crescerà un grande albero di noci sul quale il grifone si riposerà; se non potesse riposarsi, non sarebbe abbastanza forte per portarvi fino all'altra riva. E se ti dimentichi di lasciar cadere la noce, vi lascerà cadere in mare".

Ella andò e trovò tutto come aveva detto il vento di tramontana. Tagliò l'undicesima canna e con quella colpì il drago, così il leone lo vinse ed entrambi riacquistarono il loro aspetto umano. Ma non appena la principessa, che prima era un drago, fu liberata dall'incanto, prese il braccio del giovane, salì con lui sul grifone e se lo portò via. E la povera pellegrina restò là, di nuovo sola. "Andrò fin dove soffia il vento" disse "e camminerò finché‚ canta il gallo, e lo troverò."

Se ne andò e, cammina cammina, giunse finalmente al castello dove i due vivevano insieme, e udì che stavano per festeggiare le loro nozze. Ma ella disse: "Dio mio, aiutami tu!". Prese la scatoletta che le aveva dato il sole, e dentro c'era un abito che risplendeva proprio come il sole. Lo tirò fuori, lo indossò e salì al castello e tutta la gente la guardò meravigliata, compresa la fidanzata. A costei l'abito piacque tanto che pensò di farne il proprio abito da sposa, e le domandò se per caso fosse in vendita. "Non con beni o con monete" ella rispose "ma con carne e sangue l'avrete." La fidanzata le chiese che cosa intendesse dire, ed ella rispose: "Lasciatemi dormire per una notte nella stanza in cui dorme lo sposo". La fidanzata non voleva, e tuttavia avrebbe voluto avere il vestito e infine acconsentì, però il cameriere dovette dare al principe un sonnifero. Quando fu notte, e il principe si fu addormentato, la condussero nella stanza. Ella si sedette accanto al suo letto e disse: "Ti ho seguito per sette anni, sono andata dal sole, dalla luna e dai quattro venti a chiedere di te; ti ho aiutato contro il drago: ora vuoi proprio dimenticarmi del tutto?". Ma il principe dormiva così profondamente che gli parve soltanto di sentire là fuori il vento sussurrare fra gli abeti. Allo spuntar del giorno, ella fu ricondotta fuori e dovette consegnare l'abito d'oro. E poiché‚ anche questo non era servito a nulla, si fece triste, andò su di un prato, si mise a sedere e pianse. E mentre se ne stava là seduta, le venne in mente l'uovo che le aveva dato la luna: lo ruppe e ne uscì una chioccia con dodici pulcini tutti d'oro che correvano qua e là pigolando e poi tornavano a rifugiarsi sotto le ali della madre, sicché‚ al mondo non vi era niente di più bello da vedere. Allora la fanciulla si alzò li spinse innanzi sul prato, finché‚ la fidanzata non li vide dalla finestra; e i pulcini le piacquero tanto che subito scese e le domandò se per caso fossero in vendita. Ed ella rispose: "Non con beni o con monete, ma con carne e sangue l'avrete! Lasciatemi dormire ancora una notte nella stanza dove dorme lo sposo". La sposa acconsentì e voleva ingannarla come la sera precedente. Ma quando il principe andò a letto, chiese al suo cameriere che cosa era stato quel mormorare e quel sussurrare nella notte. Allora il cameriere gli raccontò tutto: aveva dovuto dargli un sonnifero, poiché‚ una povera fanciulla aveva dormito di nascosto nella stanza; e quella notte doveva dargliene un altro. Il principe allora disse: "Versa il sonnifero accanto al letto". Durante la notte ella fu nuovamente introdotta nella stanza e quando incominciò a raccontare le sue tristi avventure egli riconobbe subito la sua cara sposa dalla voce; balzò in piedi e disse: "Finalmente sono libero; mi pareva di vivere in un sogno: la principessa straniera mi ha stregato perché‚ ti dimenticassi; ma Dio mi ha soccorso in tempo!". Durante la notte uscirono insieme di nascosto dal castello, poiché‚ temevano il padre della principessa che era un mago; salirono sul grifone che li portò al di là del mar Rosso; e quando furono in mezzo al mare ella lasciò cadere la noce. Subito crebbe un grande albero di noci sul quale l'uccello poté riposarsi, poi li condusse a casa dove trovarono il loro figlio che era diventato grande e bello; e da allora in poi vissero felici fino alla morte.
view post Posted: 26/6/2020, 12:44     J.Jacobs: L'albero di rose - Fiabe e Leggende
C'era una volta un brav'uomo che aveva due bambini: una ragazza dalla sua prima moglie, e un maschio dalla seconda. La femmina era di carnagione bianca come il latte, con le labbra rosse come ciliegie, e lunghissimi capelli di seta d'oro che le arrivavano ai piedi. Il suo fratellino l'amava teneramente, ma la cattiva matrigna, invece, la odiava. "Figlia," le disse un giorno, "va' dal droghiere e comprami una libbra² di candele." Le diede dei soldi e la fanciulla uscì, comprò le candele e tornò a casa, ma c'era uno steccato, così, depose a terra le candele e s'arrampicò sulle assi per oltrepassare, ma in quel mentre apparve un cane che scappò con le candele. Allora ritornò dal droghiere e ne comprò delle altre. Quando fu di nuovo davanti allo steccato, mise a terra il mazzetto e s'arrampicò di nuovo, e di nuovo venne il cane a rubarle le candele. Tornò per la terza volta dal droghiere, e per la terza volta accadde come prima; allora rientrò a casa piangendo per la disperazione di aver speso tutti i soldi e per aver perso le candele per tre volte. La matrigna sotto sotto era furiosa, ma si finse calma e le disse: "Vieni ad accucciare il capo sul mio grembo, che voglio pettinarti i capelli." La fanciulla coricò la testa sul grembo della matrigna e si sciolse i lunghissimi capelli d'oro che si srotolarono sul pavimento. La bellezza di quella chioma bionda suscitò ancora più forte l'odio della perfida matrigna, la quale disse: "Non riesco a farti le trecce finché tieni la testa appoggiata sulle mie ginocchia, vammi a prendere un ceppo di legno." La ragazza andò e tornò con quello. Poi la matrigna disse: "Non riesco a farti le trecce, portami un'ascia." Così fece. "E adesso corica il capo sul ceppo mentre io ti pettino le trecce." La fanciulla fece come aveva detto la perfida donna, e in men che non si dica quella le mozzò il capo. Poi ripulì la scure e rise; poi prese il cuore e il fegato della povera figliastra e ne fece uno stufato. Il marito li assaggiò ma scosse la testa, perché avevano uno strano sapore; ella allora ne servì un po' al figlio, ma egli non ne volle. Lei cercò allora di obbligarlo a mangiarli ma lui si riufiutò e corse fuori in giardino, prese i resti della sua cara sorellina, la tumulò in una cassa e la seppellì sotto una rosa, e tutti i giorni andava a piangere davanti a quella rosa, e le sue lacrime si riversavano sulla tomba di lei. Un giorno la rosa fiorì; era primavera, e lassù in mezzo ai fiori c'era un uccellino bianco. Cantò e cantò tanto, con voce così melodiosa che sembrava quella di un angelo del Paradiso. Poi volò via e andò a posarsi sul ramo di un albero che stava vicino alla bottega di un calzolaio, e quando fu lassù, cantò:

La mia mamma cattiva mi ha ammazzata, Il mio caro babbo mi ha mangiata Il mio fratello adorato sta laggiù e io canto quassù Legno oro e pietra E presto sarò lieta.

"Che bella canzone! Canta ancora!" disse il calzolaio. "D'accordo, ma in cambio mi darai quel bel paio di scarpette rosse che stai lavorando." Il calzolaio gli regalò le scarpe, e l'ulleccelletto cantò di nuovo. Poi volò sull'albero vicino al negozio di un orologiaio, e cantò:

La mia mamma cattiva mi ha ammazzata, Il mio caro babbo mi ha mangiata Il mio fratello adorato sta laggiù e io canto quassù Legno oro e pietra E presto sarò lieta.

"Oh, che bel canto! Ancora, ancora, dolce uccellino!" disse il calzolaio. "D'accordo, ma in cambio mi darai l'orologio d'oro e la catenina che hai in mano." Il gioielliere accettò lo scambio e l'uccello afferrò orologio e catenina: se li mise sulle zampette, e aver ripetuto la canzone, volò via e andò a un mulino, dove stavano macinando una grossa macina di pietra. L'uccellino si posò sull'albero e cantò:

La mia mamma cattiva mi ha ammazzata, Il mio caro babbo mi ha mangiata Il mio fratello adorato sta laggiù e io canto quassù Legno..

E il primo dei tre operai interruppe il suo lavoro e guardò in sù.

"Oro!"

E anche il secondo operaio ripose gli attrezzi e guardò in sù.

"Pietra!"

E pure il terzo depose l'attrezzo e guardò in sù.

"E presto sarò lieta!"

E tutti e tre dissero all'unisono: "Oh, che bella canzone, cantala ancora, dolce uccellino!" E quello rispose: "Sì, se mi date in cambio quella grossa pietra." I tre operai accettarono, poi l'uccello bianco cantò di nuovo il suo motivetto, e volò via, portando con sé le scarpette rosse su una zampa, l'orologio d'oro sull'altra, e la macina legata intorno al collo. E cantando cantando volò verso casa sua. Arrivato, picchiettò il cornicione della casa con la macina, e dall'interno si udì la voce della matrigna dire: "Sta tuonando." Allora il figlio scivolò fuori per sentire i tuoni, ed ecco venir giù dall'alto un bel paio di scarpette rosse. Sbatté ancora la macina e la matrigna disse ancora: "Sta tuonando." Anche il marito andò fuori a vedere, e l'uccello bianco lasciò cadere l'orologio d'oro. Padre e figlio si guardarono sorpresi e risero e poi esclamarono: "Ma guarda che bei regali che ci hanno portato i tuoni!" Infine, l'uccelletto bianco colpì per la terza volta il cornicione della casa e la matrigna disse: "Di nuovo il tuono; forse ha portato qualcosa anche per me." E corse fuori, ma appena varcò la soglia di casa l'uccello lasciò andare la pietra che le cadde sulla testa e così ella morì.
view post Posted: 26/6/2020, 12:43     Luigi Capuna: L'albero che parla - Fiabe e Leggende
C'era una volta un Re che credeva d'aver raccolto nel suo palazzo tutte le cose più rare del mondo. Un giorno venne un forestiere, e chiese di vederle. Osservò minutamente ogni cosa e poi disse: "Maestà, vi manca il meglio." "Che cosa mi manca?" "L'albero che parla." Infatti, tra quelle rarità, l'albero che parlava non c'era.Con questa pulce nell'orecchio, il Re non dormì più. Mandò corrieri per tutto il mondo in cerca dell'albero che parlava. Ma i corrieri tornarono colle mani vuote. Il Re si credette canzonato da quel forestiere, e ordinò d'arrestarlo. "Maestà, se i vostri corrieri han cercato male, che colpa ne ho io? Cerchino meglio." "E tu l'hai veduto, coi tuoi occhi, l'albero che parla?" "L'ho veduto con questi occhi e l'ho sentito con queste orecchie." "Dove?" "Non me ne rammento più." "E che cosa diceva?" "Diceva «aspettare e non venire è una cosa da morire». Era dunque vero! Il Re spedì di bel nuovo i suoi corrieri.

Passa un anno, e questi ritornano da capo colle mani vuote. Allora, sdegnato, ordinò che al forestiere si tagliasse la testa. "Maestà, se i vostri corrierihancercato male, che colpa ne ho io? Cerchino meglio." Questa insistenza lo colpì. Chiamati i suoi ministri, disse che voleva andar lui in persona alla ricerca dell'albero che parlava. Finché non lo avesse nel suo palazzo, non si terrebbe per Re. E partì, travestito. Cammina, cammina, dopo molti giorni la notte lo colse in una vallata dove non c'era anima viva. Sdraiossi per terra e stava per addormentarsi, quand'ecco una voce che pareva piangesse: "Aspettare e non venire è una cosa da morire!" Si scosse e tese l'orecchio. Se l'era sognato? "Aspettare e non venire è una cosa da morire!" Non se l'era sognato! E domandò subito: "Chi sei tu?" Non rispondeva nessuno. Ma le parole erano, precise, quelle dell'albero che parlava. "Chi sei tu?" Non rispondeva nessuno. La mattina,come aggiornò, vide lì vicino un bell'albero coi rami pendenti fino a terra:Doveva esser quello. E per accertarsene, stese la mano e strappò due foglie. "Ahi! Perché mi strappi?" Il Re, con tutto il suo gran coraggio, rimase atterrito. "Chi sei tu? Se sei anima battezzata, rispondi, in nome di Dio!" "Son la figliuola del Re di Spagna." "E in che modo ti trovi lì?" "Vidi una fontana limpida come il cristallo, e pensai di lavarmi. Tocca appena quell'acqua, rimasi incantata. "Che posso fare per liberarti?" "Bisogna aver la fatatura e giurare di sposarmi." "Questo lo giuro subito, e la fatatura saprò procurarmela, dovessi andare in capo al mondo. Ma tu, perché non mi rispondevi la notte scorsa?" "C'era la Strega... Sta' zitto, allontanati; sento la Strega che ritorna. Se per disgrazia ti trovasse, incanterebbe anche te." Il Re corse a nascondersi dietro un muricciolo, e vide arrivar la Strega a cavallo del manico di una granata. "Con chi hai tu parlato?" "Col vento dell'aria." "Veggo qui delle pedate." "Son forse le vostre." "Ah! Son le mie?" La strega afferrava una mazza di ferro e: "Di dove vieni? Vengo dal mulino." "Basta, per carità! Non lo farò più!" "Ah! Son le mie?" E: "Di dove vieni? Vengo dal mulino." Il Re, angustiato, si persuase che era inutile il seguitare a star lì; bisognava procurarsi la fatatura. E tornò addietro. Ma sbagliò strada. Quando s'accorse d'essersi smarrito in un gran bosco e non trovava più la via, pensò di montare in cima a un albero per passarvi la notte; altrimenti, le bestie feroci n'avrebbero fatto un boccone.

Ed ecco, a mezzanotte, un rumore assordante per tutto il bosco. Era un Orco che tornava a casa coi suoi cento mastini, che gli latravano dietro. "Oh, che buon odore di carne cristiana!" L'Orco si fermò a piè dell'albero, e cominciò ad annusar l'aria: "Oh, che buon odore!" Il Re aveva i brividi mentre i mastini frugavano latrando, fra le macchie, e raspando il suolo dove fiutavan le pedate. Ma per sua buona sorte era buio fitto; e l'Orco, cercato inutilmente per un po' di tempo, andava via chiamandosi dietro i mastini. "Té! Té!" Quando fu giorno, il Re, che tremava ancora dalla paura, scese da quell'albero e cominciò ad inoltrarsi cautamente. Incontrò una bella ragazza. "Bella ragazza, per carità, additatemi la via. Sono un viandante smarrito." "Ah, povero a te! Dove tu sei capitato! Fra poco ripasserà mio padre e ti mangerà vivo, poverino!" Infatti si sentivano i latrati dei mastini dell'Orco e la voce di lui che se li chiamava dietro: "Té! Té!" ' Questa volta sono morto! ' pensò il Re. "Vien qua, "disse la ragazza "bùttati carponi. Io mi sederò sulla tua schiena, e la mia gonna ti coprirà. Non fiatare!
L'Orco, vista la figliuola, si fermò. "Che fai lì.?" "Mi riposo." "Oh, che buon odore di carne cristiana!" "Passava un ragazzino, e ne feci un bocconcino." "Brava! E le ossa?" "Se le rosicchiarono i cani." L'Orco non cessava d'annusar l'aria. "Oh, che buon odore!" "Se volete arrivare alla marina, non indugiate per via."

Partito che fu l'Orco, il Re raccontò alla ragazza, per filo e per segno, tutta la sua storia. "Maestà, se volete sposarmi, la fatatura ve la darei io." La ragazza era una bellezza; il Re l'avrebbe sposata volentieri. "Ahimè, bella ragazza! Ho impegnato la parola." "È la mia cattiva sorte! Ma non importa." Lo condusse a casa, prese un barattolo e gli strofinò il petto con una pomata di suo padre. Il Re fu fatato. "Ed ora, bella ragazza, dovreste prestarmi una scure." "Eccola." "Che cosa è quest'unto?" "È l'olio della cote dove è stata affilata." Colla fatatura, ci volle un batter d'occhi per tornare al luogo dove trovavasi l'albero che parlava. La Strega non c'era, e l'albero gli disse: "Bada! Dentro il tronco c'è nascosto il mio cuore. Quando dovrai abbattermi non dar retta alla Strega. Se ti dirà di dar i colpi in su, e tu dàlli in giù. Se ti dirà di darli in giù, e tu dàlli in su; altrimenti m'ammazzeresti. Alla Stregaccia poi bisognerà spiccarle la testa con un sol colpo, o saresti spacciato; neppure la fatatura ti salverebbe." Venne la Strega. "Che cerchi da queste parti?" "Cerco un albero per far del carbone, e stavo osservando questo qui." "Ti farebbe comodo? Te lo regalo, a patto che per atterrarlo tu dia colpi dove ti dirò io." "Va bene." Il Re brandì la scure, che tagliava meglio d'un rasoio e domandò: "Dove?" "Qui." E lui, invece, diè lì. "Ho sbagliato. Da capo. Dove?" "Lì." E lui, invece, diè qui. "Ho sbagliato. Da capo." Intanto non trovava il verso di assestare il colpo alla Strega: essa stava guardinga. Il Re fece: "Oooh!" "Che vedi?" "Una stella." "Di giorno? E impossibile." "Lassù, diritto a quel ramo: guardate!" E mentre la Strega gli voltava le spalle per guardare diritto a quel ramo, lui le menò il colpo e le staccò, di netto, la testa.

Rotta così la malìa, dal tronco dell'albero uscì fuori una donzella, che non poteva esser guardata fissa, tanto era bella! Il Re, contentissimo, tornò insieme con lei al palazzo reale, e ordinò che si preparassero subito magnifiche feste per gli sponsali. Arrivato quel giorno, mentre le dame di corte abbigliavano da sposa la Regina, s'accorsero, con gran meraviglia, che avea le carni dure come il legno. Una di esse volò dal Re: "Maestà, la Regina ha le carni dure come il legno!" "Possibile?" Il Re e i ministri andarono ad osservare. La cosa era sorprendente. Alla vista parevano carni da ingannare chiunque; a toccarle, era legno! Lei intanto parlava e si muoveva. I ministri dissero che il Re non poteva sposare una bambola, quantunque essa parlasse e si muovesse; e contromandaron le feste. "Qui c'è un altro incanto! "pensò il Re, che si ricordò dell'unto della scure. Prese un pezzetto di carne e lo tagliuzzò con questa. Aveva indovinato! I pezzettini, alla vista, parevan carne da ingannare chiunque; a toccarli, eran legno. Il tradimento gliel'aveva fatto la figliuola dell'Orco, per gelosia. Il Re disse ai ministri: "Vado e torno." E si trovò nel bosco, dove aveva incontrato quella ragazza. "Maestà, da queste parti? Che buon vento vi mena?" "Son venuto apposta per te." La figlia dell'Orco non volea credergli: "Parola di Re, che siete venuto apposta per me?" "Parola di Re!" Ed era vero; ma lei s'immaginava per le nozze. Sipresero a braccetto ed entrarono in casa. "Questa è la scure che tu mi prestasti." Nel porgergliela, il Re fece in maniera di ferirla in una mano. "Ah, Maestà, che avete fatto! Son diventata di legno!" Il Re si fingeva afflittissimo di quell'accidente: "E non si può rimediare?" "Aprite quell'armadio, prendete quel barattolo, ungetemi tutta coll'olio che è lì dentro, e sarò subito guarita." Il Re prese il barattolo: "Aspetta che io torni!" Lei capì e si messe a urlare: "Tradimento!Tradimento!" E gli scatenò dietro i cento mastini di suo padre. Ma sì!..il Re era sparito. Con quell'olio le carni della Regina tornarono subito morbide, e si poterono celebrare le nozze. Furono fatte feste reali per otto giorni, e a noialtri non dettero neppure un corno.
view post Posted: 26/6/2020, 12:42     H.C.Andersen: L'ago da rammendo - Fiabe e Leggende
C'era una volta un ago da rammendo, così delicato da credersi un ago da ricamo. "State attente a dove mi tenete!" disse l'ago da rammendo alle dita, che lo tiravano fuori dalla scatola. "Non mi perdete! Se cado sul pavimento, non sarete più capaci di ritrovarmi, tanto sono sottile." "Questa poi!" dissero le dita e lo afferrarono per la vita. "Guardate: io arrivo col seguito!" esclamò l'ago da rammendo, tirando dopo di sé un lungo filo, che però non aveva il nodo. Le dita guidarono l'ago fino nella pantofola della cuoca dove la tomaia si era rotta e doveva essere ricucita. "È un lavoro volgare!" gridò l'ago da rammendo. "Io non riuscirò mai a passarci! mi spezzo! mi spezzo!" e difatti si spezzò. "Non l'avevo forse detto?" disse l'ago "sono troppo sottile!" Adesso non servirà più a niente, pensarono le dita, ma lo tennero comunque tra loro, perché la cuoca vi sciolse sopra della ceralacca e lo infilò sulla sua sciarpa. "Ecco, adesso sono una spilla da cravatta!" esclamò l'ago da rammendo. "Lo sapevo che avrei ottenuto degli onori, quando si è qualcuno si diventa importanti!" e intanto rideva tra sé, perché naturalmente non si può vedere un ago da rammendo che ride. Stava tutto fiero come se andasse in carrozza, e guardava da tutte le parti. "Posso avere l'onore di chiederVi se siete d'oro?" chiese poi allo spillo, che era il suo vicino. "Avete un ottimo aspetto e poi la testa è proprio Vostra! ma è così piccola! Dovete cercare di farla crescere, perché non è certo da tutti avere della ceralacca all'estremità!" e così l'ago da rammendo si drizzò fiero, ma subito cadde dalla sciarpa nel lavandino, proprio mentre la cuoca faceva scorrere l'acqua. "Adesso si viaggia" esclamò l'ago da rammendo "purché non mi smarrisca!" E invece si smarrì. "Sono troppo sottile per questo mondo!" commentò l'ago quando si trovò nel rigagnolo. "Però ho la coscienza di quello che sono, e ciò è una soddisfazione!" e si tenne ben dritto senza perdere il buon umore. Sopra di lui passavano cose di ogni genere: schegge di legno, pagliuzze, pezzetti di giornale. "Guarda come navigano!" disse l'ago da rammendo. "Non sanno che sotto c'è qualcosa che punge! Io pungo! E rimango qui. Ecco, ora arriva un legnetto; crede che al mondo non ci sia altro che legnetto, cioè lui stesso; ora passa una pagliuzza, e come si rigira! Non pensare troppo a te stessa potresti andare contro il selciato! Là galleggia un giornale! ormai è dimenticato quello che ci sta scritto sopra, ma ciò nonostante lui si gonfia tutto. Io me ne sto qui tranquillo. So quello che sono e tale resterò."

Un giorno si fermò vicino a lui qualcosa che luccicava in modo splendido, e l'ago da rammendo lo credette un diamante, ma in realtà era un coccio di bottiglia; comunque, dato che luccicava, l'ago da rammendo si presentò come spilla da cravatta. "Lei non è un diamante?" "Sì qualcosa di simile!" e così entrambi credettero di essere preziosi e cominciarono a parlare della arroganza del mondo. "Io abitavo nella scatola di una ragazza" raccontò l'ago da rammendo "e la ragazza faceva la cuoca; aveva in ogni mano cinque dita, ma non ho mai conosciuto nessuno che fosse più presuntuoso di loro; e pensare che il loro compito era quello di tenermi, tirarmi fuori dalla scatola e ripormi di nuovo." "Erano lucenti?" domandò il coccio di bottiglia. "Lucenti?" esclamò l'ago "no! no! erano solo superbi! erano cinque fratelli, tutti dita per nascita, stavano dritti e uniti tra loro, sebbene fossero di diversa lunghezza. Il più esterno di loro, il pollice, era basso e grasso, era fuori dalla fila e aveva un'unica frattura sulla schiena, perciò si poteva piegare solo una volta. Ciò nonostante egli sosteneva che un uomo, perdendolo, non era più idoneo al servizio militare. L'indice si ficcava nel dolce e nell'amaro, indicava il sole e la luna, e faceva pressione quando si scriveva. Il medio guardava gli altri dall'alto in basso, l'anulare aveva un anello d'oro in vita e il mignolo non faceva nulla e se ne vantava. Era pura spavalderia e nient'altro; così io caddi nel lavandino." "E ora siamo qui a luccicare" commentò il pezzo di vetro. In quel mentre arrivò molta acqua nel rigagnolo che straripò dai due lati e si portò via il pezzo di vetro. "Ecco è stato promosso!" disse l'ago da rammendo. "Io resto qui, sono troppo sottile, ma ne vado fiero, e la fierezza è rispettabile" e si tenne dritto meditando a lungo. "Quasi credo di essere nato da un raggio di sole, tanto sono sottile! Mi sembra anche che il sole mi cerchi sempre sotto l'acqua. Purtroppo sono così sottile che mia madre non riesce a ritrovarmi; se avessi ancora il mio vecchio occhio, che si è spezzato, credo che potrei piangere. No, forse non lo farei, piangere non è una cosa fine!"

Un giorno dei monelli si misero a giocare nel rigagnolo e vi trovarono vecchi chiodi, monetine e cose simili. Erano tutte porcherie, ma per loro era un divertimento. "Ah!" esclamò uno di loro, quando si punse con l'ago da rammendo "guarda che tipo!" "Io non sono un tipo! Sono una signorina" replicò l'ago, ma nessuno lo udì. La ceralacca si era staccata e lui era diventato tutto nero, ma il nero assottiglia e quindi lui credette di essere ancora più sottile di prima. "Arriva un guscio d'uovo" gridarono i ragazzi e subito infilzarono l'ago nel guscio. "Pareti bianche e io sono tutto nero!" disse l'ago "mi sta proprio bene; così adesso mi noteranno! Purché non mi venga mal di mare, perché altrimenti mi spezzo." Ma non gli venne mal di mare e neppure si spezzò. "È un bene avere lo stomaco d'acciaio contro il mal di mare e poi bisogna sempre ricordare che si vale più di un uomo! Ora il male è passato! Quanto più uno è sottile, tanto meglio resiste." "Crac" fece il guscio d'uovo, perché un carro pesante gli passò sopra. "Oh, come preme!" gridò l'ago da rammendo "ora mi viene il mal di mare! ora mi spezzo! mi spezzo!" ma non si spezzò, sebbene gli fosse passato sopra un carro pesante; si ritrovò disteso per terra e lì potrà anche rimanere!
view post Posted: 26/6/2020, 12:41     F.lli Grimm: L'acqua della vita - Fiabe e Leggende
C'era una volta un re che si ammalò a tal punto che nessuno credeva più che potesse guarire; egli aveva tre figli, i quali erano afflitti per la malattia del padre. Un giorno si rifugiarono nei giardini del palazzo a piangere, e lì incontrarono un vecchio che volle sapere il motivo di tanto dolore. Essi risposero che il loro padre era gravemente malato e che quasi certamente ne sarebbe morto, poiché nessuna cura aveva avuto effetto sulla malattia; allora il vecchio disse: "Io conosco un rimedio: è l'acqua della vita, e se vostro padre ne berrà anche un solo sorso, riacquisterà la salute, ma è molto difficile procurarsela." Ma il maggiore dichiarò: "Io riuscirò a trovarla" e pregò il vecchio padre di lasciarlo partire alla ricerca dell'acqua della vita, convinto di essere l'unico in grado di salvarlo. Ma il re rispose: "No, correresti troppi rischi. E' meglio che sia io a morire." Ma il figlio lo pregò e lo supplicò, e alla fine il re dovette lasciarlo partire. Nel suo cuore, il principe pensava: 'Se riesco a portargli quell'acqua, sarò io il figlio prediletto, ed erediterò il regno.' Dunque, partì, e dopo aver cavalcato per un breve tratto, s'imbatté in un nano che lo avvicinò e gli disse: "Dove vai così di fretta?" "Alla larga, nanerottolo", rispose il principe, molto scortesemente, "non sono affari tuoi." E se ne andò ignorandolo, ma il nano andò in collera e gli scagliò una maledizione; infatti, poco dopo, il figlio del re entrò in una gola, e più avanzava, più le montagne s'avvicinavano tra loro, e alla fine il passaggio si restrinse a tal punto ch'egli non poté più andare né avanti, né indietro. Gli fu impossibile rigirare il cavallo, e allo stesso tempo non poté più smontare dalla sella, e ben presto rimase imprigionato tra i varchi. Il padre malato lo attese per giorni e giorni, ma lui non fece più ritorno. Allora anche il figlio mezzano disse: "Padre, lasciate partire me alla ricerca dell'acqua della vita." Inizialmente il vecchio re non voleva, ma poi acconsentì, e il ragazzo partì, seguendo la stessa strada che aveva percorso il fratello. Anch'egli incontrò il nano, il quale lo fermò per parlargli, e gli domandò: "Dove vai così di fretta?" "Taci, nanerottolo", rispose il figlio del re, "non ti riguarda dove vado." E rigirò i tacchi, ignorandolo. Allora il nano andò in collera, e scagliò contro di lui la stessa maledizione che aveva colpito suo fratello, e così, anche lui finì intrappolato tra le montagne senza portersi più muovere.

Ecco quello che succede agli arroganti.

Dal momento che neanche il secondogenito fece ritorno, il figlio minore supplicò suo padre di lasciarlo partire per cercare l'acqua miracolosa. Il re si oppose, ma alla fine dovette lasciarlo andare. Quando il giovane principe incontrò il nano, alla domanda di quest'ultimo, "Dove vai così di fretta?", fermò il cavallo e spiegò gentilmente: "Sto cercando l'acqua della vita per mio padre che è gravemente malato e prossimo alla morte." E il nano gli chiese: "E hai idea di dove trovarla?" "Purtroppo, nessuna" rispose il principe. "Dal momento che mi sembri un buon figliolo, e visto che mi hai risposto cortesemente, a differenza dei tuoi fratelli arroganti, ti darò le informazioni che ti servono per trovare l'acqua della vita. Dunque, devi sapere che essa scaturisce da una fontana che si trova nella corte di un castello incantato, ma per raggiungerla, hai bisogno di una verga di ferro, e di due piccole pagnotte, che io adesso ti darò. Batti per tre volte la verga sul portone, e quello si aprirà; all'interno troverai due leoni con due enormi fauci, ma rabboniscili con il pane. Poi, dovrai sbrigarti a raccogliere l'acqua della vita prima che l'orologio batta le dodici, altrimenti la porta si richiuderà alle tue spalle e tu rimarrai prigioniero." Il principe ringraziò il nano, poi prese verga e pane e proseguì il suo viaggio; quando arrivò, fece esattamente come il nano aveva detto: al terzo colpo, il portone si aprì, e dopo aver ammansito i due leoni con il pane, entrò nel castello: lì giunse in uno splendido salone, dove sedevano dei principi stregati, e il giovane figlio di re tolse loro gli anelli dalle dita. Lì trovò anche una spada e una pagnotta, e se le portò via; dopo, entrò in una sala, dove stava una bella dama, la quale, nel vederlo, si rallegrò, lo baciò e gli disse che lui l'aveva salvata, e che, perciò, gli spettava di diritto il trono, e aggiunse che se fosse tornato dopo un anno, si sarebbero sposati. Dopo di che, la fanciulla gli spiegò dove si trovava l'acqua della vita, e gli raccomandò di affrettarsi ad attingere alla fonte entro mezzogiorno. Poi il principe passò oltre, e alla fine entrò in una stanza dove c'era un bel letto appena rifatto, ed essendo molto stanco, si coricò per riposare un po', e s'addormentò; quando si svegliò era mezzogiorno meno un quarto, così, uscì di corsa dal palazzo, raggiunse la fontana, riempì una coppa che stava lì a fianco con l'acqua della vita, e s'affrettò all'uscita. Ma nello stesso istante in cui varcava la soglia, l'orologio batté i dodici rintocchi, e per poco non rimase intrappolato nel portone, che, richiudendosi alle sue spalle con gran fragore e violenza, gli strappò via persino un pezzo di calcagno. Ma il principe, raggiante per essere riuscito a prendere l'acqua della vita, rimontò a cavallo e tornò verso casa. Sulla via del ritorno, incontrò di nuovo il nano, e quando quest'ultimo vide che aveva portato con sé il pane e la spada, disse: "Questa spada e questo pane hanno decretato la tua vittoria; hai per le mani una gran fortuna, poiché, sappi, che con questa spada potrai sconfiggere qualasiasi nemico, mentre questo pane è magico e ha la virtù di essere inesauribile." Allora il principe disse che desiderava soltanto tornare da suo padre, ma non prima di aver ritrovato i suoi fratelli, e chiese al nano: "Caro nano, sai dirmi dove sono finiti i miei fratelli? Sono partiti prima di me e non sono più tornati." "Sono rimasti imprigionati tra le montagne" rispose. "Li ho condannati io stesso a questa condizione, per punirli della loro arroganza." Ma il principe lo supplicò di liberarli, e alla fine il nano acconsentì, ma poi lo mise in guardia su di loro e gli disse: "Guardatane bene, perché hanno l'animo cattivo."

Il principe fu felice di riunirsi ai suoi fratelli, e raccontò loro le sue avventure, spiegando come aveva trovato l'acqua della vita e di aver liberato la bella principessa dall'incantesimo; raccontò anche che si era fidanzato con lei, e quest'ultima lo attendeva di lì a un anno per celebrare le nozze, e aggiunse che quel giorno avrebbe ottenuto in dote il regno di lei. Dopo di ciò, proseguirono insieme il viaggio, e s'imbatterono per caso in un regno devastato dalla guerra e dalla carestia, dove regnava un sovrano che si era rassegnato all'idea di dover morire di fame. Allora il principe si recò da quel re e gli offrì il suo pane, con il quale sfamò l'intera popolazione, e poi, con la famosa spada magica, respinse e sconfisse gli attacchi delle truppe nemiche. Così, il re di quella terra poté vivere in pace. Il principe, poi, riprese con sé la spada e il pane e, insieme ai suoi fratelli, riprese il cammino. Ma subito dopo arrivarono in altri due regni, anch'essi devastati da guerre e carestie, e di nuovo, il buon principe sfamò i popoli e sconfisse le truppe nemiche, restituendo la pace ai quei regni. Alla fine di questi avvenimenti, erano in tutto tre le terre soccorse e liberate dal giovane principe, e finalmente egli s'imbarcò su una nave, per far ritorno in patria con i suoi fratelli. Durante la navigazione, i due figli maggiori del re si appartarono fra loro e dissero: "Nostro fratello minore ha trovato l'acqua della vita, e noi no. Così sarà lui ad aggiudicarsi il regno di nostro padre, mentre spetterebbe a noi; egli ci ha derubato delle nostre fortune." Quindi cominciarono a meditare vendetta, e architettarono un piano per distruggerlo. Quella notte, attesero che dormisse, poi, gli sottrassero dalla coppa l'acqua della vita, sostituendola con acqua di mare. Quando arrivarono a casa, il principe minore non vide l'ora di offrire al padre malato l'acqua risanatrice per vederlo guarire; ma appena il vecchio re ebbe bevuto un sorso dell'acqua salata, cagionò ancora di più, e mentre gemeva dal dolore, i due fratelli maggiori si fecero avanti accusando il minore di tentato avvelenamento, e dopo dichiararono di essere invece loro stessi a trovare l'acqua della vita, e gliela porsero. Ed ecco che dopo pochi sorsi il re si sentì rinvigorito e completamente risanato, e tornò a sentirsi sano e forte come un giovanotto. Allora i fratelli cattivi andarono dal minore e cominciarono a schernirlo, dicendo: "Tu avrai anche trovato l'acqua della vita, ma i frutti delle tue fatiche li abbiamo colti noi; tu avresti dovuto farti più furbo e stare in guardia: infatti, noi ti abbiamo sottratto l'acqua della vita sotto il naso, sulla nave, quella sera che ti addormentasti così profondamente. E non basta: tra un anno uno di noi partirà e andrà a prendersi la tua bella principessa. Ma guai a te se tenterai di raccontare a nostro padre la verità! E comunque, se lo farai, egli non ti crederà, perché ormai non si fida più di te, perciò, se parlerai, ci rimetterai la vita, ma se collaborerai, avrai la vita in premio." Nel frattempo, il vecchio re, persuaso dai figli maggiori, era andato in collera, e si era convinto che il minore avesse davvero tentato di ucciderlo. Decise pertanto di convocare la corte e in gran segreto i giudici emisero una sentenza di morte a carico del povero giovane. Una volta, mentre era fuori a caccia, inconsapevole del complotto a suo carico, mentre si trovò nel fitto della foresta con il cacciatore del re, s'accorse che l'uomo lo guardava con aria addolorata; allora il principe gli disse: "Cos'avete, caro cacciatore?" E quello rispose: "Non posso rivelarlo, altezza. Sono costretto a tacere." E il principe disse: "Parlate tranquillamente, sia quel che sia. Non vi serberò rancore." "Ahimè!" rispose il cacciatore, "sono costretto a spararvi, il re vostro padre me lo ha ordinato." La qual notizia scioccò il principe, e disse: "Vi prego, amico mio, lasciatemi vivere: vi darò le mie vesti regali, e in cambio voi mi darete i vostri abiti." "Lo farò certamente, perché non avrei avuto il coraggio di uccidervi." Così dicendo, fecero lo scambio e il cacciatore tornò a palazzo, mentre il principe si rifugiò nella foresta. Ma qualche tempo dopo, accadde un fatto curioso: al palazzo reale furono consegnati tre carri pieni d'oro e di pietre preziose, inviati dai sovrani dei tre regni salvati, e destinati in dono al principe più giovane, come segno di riconoscenza per quanto egli aveva generosamente fatto per loro durante le guerre. Allora il padre pensò, 'e se mio figlio fosse innocente?", e, pentitosi di averlo condannato, disse, disperato, ai suoi dignitari: "Quanto vorrei che egli fosse ancora vivo! Mi addolora il pensiero che sia stato io stesso a comandarne la fine, povero figlio mio!" Allora il cacciatore si fece avanti e disse al re: "Non rammaricatevi, Maestà, perché vostro figlio è ancora vivo. Mi duole di dovervi confessare che non ho avuto il coraggio di eseguire i vostri ordini." E così dicendo, raccontò tutto per filo e per segno; allora, finalmente il re si sentì liberare dalla dura pietra che gli pesava sul cuore, e fece proclamare in ogni angolo del regno che ovunque il figlio si trovasse, era pregato di ritornare a casa poiché ogni colpa gli era stata condonata, e che godeva nuovamente delle grazie del re.

Nel frattempo, la principessa del castello incantato aveva fatto edificare un sentiero lastricato d'oro, facendo diramare l'avviso che il cavaliere che avesse percorso la strada nel centro, era il suo legittimo promesso, e che, avrebbe avuto, quindi, libero accesso al palazzo, mentre chi fosse passato ai lati, doveva essere respinto, perché voleva dire che era un impostore. Quando l'anno fu prossimo alla scadenza, il fratello maggiore partì in tutta fretta alla volta del regno della principessa, intenzionato a dichiararsi suo salvatore e leggittimo sposo, per conquistare la bella e mettere le mani sulla ricca dote. Cavalcò fino a destinazione, ma quando vide lo splendido passaggio dorato pensò che sarebbe stato un vero peccato calpestarlo col cavallo, e non osò camminarvi sopra; preferì transitare dal lato destro, ma quando si presentò all'ingresso, i cortigiani della principessa dichiararono che non era il legittimo sposo, e lo rispedirono indietro. Poco tempo dopo, fu la volta del fratello mezzano, il quale, quando giunse sotto la strada dorata e il cavallo scalpitava per ripartire, pensò che sarebbe stato deplorevole da parte sua rovinare quel bel sentiero lastricato, così si voltò e salì sul bordo sinistro; e quando fu in cima, gli usceri del palazzo gli dissero che era un impostore e lo mandarono via.

Finalmente, l'anno era concluso, e il principe più giovane decise che era il momento di partire per raggiungere l'amata, e forse accanto a lei avrebbe dimenticato le pene passate. Montò a cavallo e partì, e il desiderio e la nostalgia di lei si fecero così forti, che quando arrivò a destinazione, non notò neanche di sfuggita che era lastricato d'oro, e si fiondò al galoppo, passando dritto al centro. Quando giunse all'ingresso, le porte erano già spalancate e la principessa, che lo attendeva trepidante, lo accolse con grande gioia, e disse che lui era il suo liberatore e promesso sposo, nonché signore e padrone del suo regno. Subito furono celebrate le nozze con gioia e tripudio. Quando furono finalmente soli, sua moglie gli rivelò che suo padre lo cercava, e che lo aveva perdonato di tutto. Egli non si fece pregare, e galoppò alla volta del castello natio. E quando fu con suo padre, gli raccontò ogni cosa, di come i fratelli l'avevano tradito e poi costretto a tacere. Allora il re volle punirli, ma quelli erano fuggiti per mare e per tutta la vita non si fecero mai più rivedere.
view post Posted: 26/6/2020, 12:40     H.C.Andersen: L'acciarino magico - Fiabe e Leggende
C'era una volta... un soldato valoroso che tornava dalla guerra. Nonostante il suo coraggio, le sue tasche erano vuote e la spada era rimasta la sua unica ricchezza. Passando in mezzo a una foresta, incontrò una vecchia strega che lo fermò. "Bel soldato, ti piacerebbe guadagnare un sacco di monete?" "Monete?! Farei qualunque cosa per un pò di denaro..." "Bene!" riprese la strega, "Vedrai che non sarà difficile! Devi calarti nel tronco vuoto di quell'albero finché troverai un grosso cane con occhi grossi come tazzine da tè a guardia di un grosso forziere pieno di monete di rame: dietro la seconda porta un tesoro di monete d'argento sarà difeso da un cane con occhi grossi come macine del mulino. Infine, se aprirai la terza porta, troverai un altro cane con gli occhi grossi come la base di un torrione, vicino a un tesoro di monete d'oro. Se però poserai davanti ai cani questo mio grembiule, loro vi si accucceranno sopra senza farti male e tu potrai prendere tutte le monete che vuoi. Cosa ne dici?" Il soldato chiese allora sospettoso: "Ma tu cosa vuoi in cambio?" "Voglio solo che mi riporti un vecchio acciarino dimenticato da mia nonna!" Il giovane si legò allora una corda alla vita e, senza abbandonare la spada, si calò nell'apertura. Con sua grande meraviglia trovò le tre porte e i tre cani, proprio come aveva predetto la strega. Poco dopo era di ritorno con le tasche piene di monete, ma prima di consegnare l'acciarino chiese alla strega: "A che cosa ti serve?" La strega urlando gli si avventò addosso tentando di graffiarlo: "Dammelo subito! Dammelo, altrimenti...." Il soldato, nel vedersi assalito dalla megera esclamò: "Ah! E' così che mi ringrazi? Adesso ti farò vedere io!" E, sguainata la spada, con un fendente tagliò di netto la testa alla vecchia. Poi fischiettando proseguì allegro il cammino finché arrivò in città: "Finalmente potrò mangiare e bere a volontà!" si disse, spalancando la porta di una bella locanda. Mai fino allora la locanda aveva avuto un ospite così: pranzi di parecchie portate, una più ricercata e abbondante dell'altra, ma soprattutto laute mance. Al soldato sembrava di essere diventato un Principe, per l'improvvisa ricchezza. Si comprò per prima cosa un paio di stivali nuovi poi, consigliato da alcuni nuovi amici, fece visita al miglior sarto della città. Dopo pochi giorni vestiva una splendente uniforme che tutti si giravano ad ammirare. Generoso, era sempre attorniato da gente che voleva consigliarlo sul come spendere il suo denaro: pranzi, balli, passeggiate in carrozza, teatri e soprattutto grandi bevute si susseguivano. Com'era inevitabile, il denaro finì: sparirono gli amici e fu scacciato dalla locanda quando si accorsero che non poteva più pagare.

Il povero soldato finì in una soffitta e ogni giorno doveva stringere di un buco la cinghia dei pantaloni. Tutto il buonumore e l'allegria di prima se n'erano andati. Una sera si trovò a fare l'inventario del poco che gli era rimasto e vuotando le tasche si accorse di non aver mai usato l'acciarino della strega. Lo sfregò e allo sprizzo della prima scintilla di colpo gli comparve davanti il cane con gli ochi grandi come tezine da tè. "Cosa comandi, mio signore!"disse la bestia. Il soldato, sbalordito, balbettò: "...portami tanti soldi!" Un attimo dopo il grosso cane era di ritorno, serrando fra i denti un sacco di monete. Il soldato buttò all'aria il cappello gridando: "Evviva! Sono ricco!" Poi continuò a sfregare l'acciarino e ogni volta il cane tornava con altre monete. Quando poi l'acciarino fu sfregato due volte di seguito, arrivò il cane con gli occhi come macine di mulino, carico di monete d'argento, mentre quello che portava monete d'oro comparve strofinando tre volte. Di nuovo ricco, il soldato ricominciò a fare una vita da gran signore. Durante un ricevimento a palazzo reale, venne a sapere che il Re, credendo a una profezia che destinava la bellissima figlia a sposare un semplice soldato, non permetteva a nessuno di avvicinarla.

Quella sera, tornato in albergo, sfregò l'acciarino formulando un nuovo desiderio: "Portami la Principessa, anche solo per un momento!" Aveva appena pronunciato queste parole che il cane tornò con la bellissima fanciulla addormentata. Il soldato non poté fare a meno di baciarla e la mattina dopo la ragazza raccontò ai genitori di aver sognato quanto invece era realmente accaduto. La madre, insospettita, corse subito ai ripari e una dama di corte fu incaricata di vegliare notte e giorno sulla giovane. La sera dopo, il cane era tornato a prendere la Principessa fu visto e, dato l'allarme, al suo ritorno venne studiato uno stratagemma per sapere dove veniva portata la giovane. La dama della Regina si procurò un sacchetto di semola con cui riempì l'orlo della gonna della Principessa: la polvere uscita da un buco rivelò dove veniva portata. All'alba il soldato, scoperto, fu subito arrestato e condannato all'impiccagione! In prigione il soldato aspettava tranquillo l' ora dell'esecuzione. Il giorno fissato, una gran folla si era radunata intorno al patibolo e quando il condannato arrivò, un mormorio si alzò: "Poverino! Muore per un bacio!". Il boia alzò il cappio verso il collo del soldato e questi ottenne come ultimo desiderio di poter fumare. Il giovane, messa in bocca la pipa, sfregò più volte l'acciarino. I tre cani comparvero per incanto. Il soldato dette un ordine e le tre belve si gettarono sulle guardie. Il Re, sbalordito di fronte al prodigio, dovette arrendersi e mormorò alla Regina: "Ecco che la profezia si avvera!"

Infatti il giovane soldato di lì a poco sposò la Principessa, e in quell'occasione l'acciarino fu sfregato ancora una volta per invitare anche i tre cani alla sontuosa cerimonia.
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