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Nell’Emilia terremotata di Crevalcore pure la Fiat diventa la maceria dell’industria italiana, della Topolino e della r moscia dell’Avvocato Agnelli che era segno di alterità, ma pur sempre di rispetto per l’operaio. Ci voleva la sciagura della terra, il crepaccio che si apre e squarcia i capannoni, quei parallelepipedi di cemento, per scoprire che pure il sisma è il pretesto della dismissione. È nella piazza di questo paesino emiliano che ancora scava, dove la Magneti Marelli controllata dalla Fiat, ieri mattina aveva annunciato di spostare temporaneamente la produzione a Bari a causa dell’incertezza sismica, che si svela il volto dell’imprenditore italiano, del manager cinico con il maglioncino che di fronte alla polvere pensa a riconvertire piuttosto che a ricostruire.
Nell’accampamento dell’emergenza al terremoto si è aggiunta la battaglia del pane, la marcia, il picchetto di fabbrica, la tuta blu che nel crollo cerca ancora un’identità e che in quel pezzo d’Italia è stato il lavoro, il sindacato rosso, la musica emiliana di Guccini, le forme di formaggio come simbolo dell’Artusi, della cucina e del ragù. È giunto così pure Maurizio Landini a Crevalcore, questa volta a suo posto, a scongiurare quella che Marchionne ha sempre difeso vale a dire la mobilità degli investimenti, ma che in questa Italia disperata e attendata è simile alla diserzione di Caporetto. Marchionne come Diaz, il generale che se ne va. Due linee quindi che la Magneti aveva dato già per spostati a Bari, in quel Sud che ancora cerca il mostro di Mesagne, tranne fare marcia indietro in tarda serata e confutare quanto riferito di mattina dopo la protesta dei terremotati. Tanto è bastato per fare del momento di solidarietà nazionale che l’Italia riscopre ed esibisce quasi con un eccesso di vouyerismo, l’ennesima marcia per il lavoro che poi è figlia della marcia dei quarantamila, il vanto di Cesare Romiti, la fine dell’egemonia rossa in fabbrica. E non serve il video, i droni, altra iperbole del dramma, per vedere la faccia di Roberto, Sandrina che lasciano le pentole da campo, i mestoli e corrono a perdifiato a salvare un rudere, la pietra su cui ricominciare. Pure il Pd è arrivato e non si sa quanto in ritardo in questi altipiani che sembrano aver cambiato fede che in Emilia è ideologia da sempre, da quando Alessandro Mussolini, fabbro e padre del socialista Benito, girava ad aizzare le popolazioni allo sciopero e infatti quella è la terra di Olmo, contadino di Bertolucci e del faccione di Depardieu di Novecento e rimane la zona rossa nell’olografia italiana. Le auto quindi con le coperte stese sui sedili, i tappetini sporchi – nonostante la Magneti Marelli, vale ripeterlo ha smentito – sono gli ossi di seppia dell’industria. Nessuno in Emilia, a Crevalcore, questa Crevalcore spaventata e intimorita che si precipita dietro ai cancelli, quei cancelli che lo scrittore Paolo Volponi osservava come fossero le gretole del carcere, avrebbe potuto immaginare che la fabbrica sarebbe divenuta la pena da difendere. «Intollerabile» è per Landini, «sempre la stessa è la Fiat» secondo Giordano Fiorani, segretario della Fiom bolognese, in realtà è tutta la grande industria italiana che nel terremoto restituisce il volto feroce perché anche la prudenza è un eccesso nello scoramento e annunciare lo spostamento della produzione in questa terra che trema è stato il motto di cattivo gusto, l’avviso al malato. Si ferma a Crevalcore il Cristo di Levi, la tromba di Marx, si ferma l’Italia quell’Italia che negli anni sessanta sognava di liberare l’uomo dal lavoro e che adesso è dietro le fabbriche a proteggere l’alienazione, a proteggere il padrone. E con lui anche l'ultima ragione di sussistenza: il lavoro. PANORAMA |